Un frutto non cade mai lontano dall’albero. Questa è la storia di Federico Campanella, il Coach del Montecatini Basket, vissuto da sempre nello spogliatoio.
Sapete, se un bambino inizia a saper tirare a canestro prima quasi di saper scrivere il suo nome e cognome, è il segno che in lui tutto punta al movimento; Per questo, non mi sono affatto sorpresa quando Federico Campanella mi ha raccontato che la sua storia inizia a bordo campo mentre sta lì ad osservare suo padre che allena i ragazzi del Basket.
Il passo per diventare poi giocatore è brevissimo, anzi direi quasi inesistente. Poi, l’infortunio al ginocchio, la necessità di smettere ma anche la voglia di rimanere nel mondo dello sport portano Federico nelle aule federali, per imparare a fare l’allenatore e prendere il tesserino.
E da subito la motivazione è altissima. Un po’ per i risultati che sono arrivati immediatamente e un po’ perché Federico trova la sua vera passione: la metodologia di allenamento, le strategie e il vivere la partita da un nuovo punto di vista h. 24. Si perché da quel momento in poi, tutto il focus di Federico è su come poter migliorare la squadra allenamento dopo allenamento.
Una delle prime domande che ho fatto al Coach riguarda il brusio mentale. Mi sono sempre chiesta in effetti, se un giocatore, mentre è lì che gioca e sente la pressione della gara è più facilitato se segue lo schema o al contrario il dover per forza fare qualcosa, limita la sua sconfinata libertà di cui parlavamo nel post sulla Zona.
La risposta è interessante perché il Coach dice una cosa che nello sport è sacrosanta: il lavoro di allenamento, comprensivo di preparazione e strategia è fondamentale per far diventare più competitiva una squadra e uniformare il livello di gioco puntando alla crescita di ogni giocatore. Se ci fossero tutti fenomeni in squadra non ci sarebbe bisogno di marcare così stretto.
Ma non sempre un coach vive situazioni ideali e a volte deve fare di tutto per creare le condizioni migliori affinché ogni giocatore in base alle proprie capacità possa effettivamente dare il meglio di sé.
A questo punto la domanda mi sorge spontanea: a parità di struttura fisica e di ruolo, qual’è l’elemento che rende un’atleta fenomenale?
Il talento, dice Federico, è qualcosa di innato e se hai la fortuna di poter vivere a contatto con un giocatore del genere il tuo unico scopo è custodirlo.
Quello che fa la differenza tra due giocatori a parità di talento è indubbiamente la testa. Puoi essere in grado di dare del tu alla palla, e muoverti con leggerezza in campo ma se non hai la fame per sfruttare il tuo talento, a un certo punto ti fermerai. Al contrario, ho avuto giocatori con scarso talento innato, ma con una forza interiore talmente tanto importante da diventare un punto di riferimento importante nella squadra e nel campionato.
Negli anni, dice Federico, ho visto tanto talento sprecato per mancanza di lucidità, etica del lavoro, senso di squadra.
Il talento ti può dare più possibilità, ma se non hai sostanza interiore rimarrai un eterno potenziale.
E poi, ho chiarito con il coach un concetto che per come me lo ha spiegato lui, mi piace moltissimo. Ad un certo punto gli ho chiesto come fa a riconoscere se come allenatore sta facendo bene con il suo gruppo. Sapete, come un insegnante sa quando è l’ora di lanciare una pausa, mi chiedevo come un allenatore sa se deve premere sull’acceleratore o deve fare un passo indietro.
Il coach mi risponde che valuta i suoi giocatori sulla base della lucidità, che altro non è la capacità di fare la scelta giusta nella fatica. Allora, io questo tipo di definizione non l’avevo mai contemplata però, effettivamente ha senso e non solo mentre un’atleta ha i crampi dalla fatica, ma è valida per tutti noi, mentre siamo in ufficio o al pubblico. Se non siamo in grado di fare la scelta che crea maggior valore nella fatica e non hai un coach che ti può mettere in panchina, fatti un regalo, smetti di perseverare in quello stato.
E con questa bella intuizione, lascio che il coach si prepari per la sua meritata pizza con lo staff e nel frattempo mentre rimetto insieme le mie cose continuo a chiedermi a che tipo di risultati potremmo arrivare se ogni atleta potesse contare su un mental coach nel suo staff di lavoro. Monto in macchina, esco dal parcheggio e mi rispondo con la frase di Shopenhauer: Ognuno di noi confonde i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo.